DORIANO RAUTNIK UN VERO FUORICLASSE.

INTERVISTANDO… Doriano Rautnik.

A cura di Ilaria Solazzo

Semplicità, verità, riservatezza. Se mescoliamo questi tre ingredienti, ci ritroviamo di fronte all’essenza del talento che Doriano Rautnik ha mostrato nel tempo.

Perché, nel tempo, ruolo dopo ruolo, con incredulità ed impegno, ha conquistato passi e traguardi. Arrivando con passo silenzioso nel cuore degli italiani. Non ama definirsi un personaggio pubblico. Non lo è. Vive e lavora in nome della recitazione, costruisce i personaggi non il suo personaggio pubblico. Alimenta e plasma ogni ruolo, non la sua figura, non la sua immagine. Quell’immagine lui ce l’ha già. Da sempre. Doriano é se stesso. Semplicemente.

È un vero piacere ospitarti su questo portale. Iniziamo dalla prima domanda. Un bel tuffo nel passato. Da bambino cosa sognavi di fare?

Cara Ilaria il piacere è tutto mio nell’essere ospitato in questo tuo spazio e te ne sono grato. Mi chiedi dei miei sogni di bambino: che dire? Erano sicuramente legati allo sport avendo un papà campione mondiale di hockey pista con la Nazionale Italiana nel 1953 e nel 1956 (io nacqui nel mezzo, 1955) e la mia infanzia e adolescenza trascorsero a bordo pista sognando, appunto, gioendo per i suoi successi e sperando di emularlo. Ma il pattinaggio non era il mio talento. Ho quindi indirizzato la mia creatività nelle decorazioni e nella pittura per poi approdare, diciottenne, alla fotografia: dapprima in modo amatoriale e autodidatta (erano gli anni ’70) e successivamente in forma semi – professionale.

Quando e come nasce il tuo percorso artistico?

Il mio percorso inizia con la Scuola di Teatro del “Teatro Tirso de Molina” a Roma con i sapienti insegnamenti di un ottimo regista (Sebastiano Sebino Salvato) che mi affida subito il ruolo di protagonista nella versione in prosa de “Le Nozze di Figaro” che come debutto fu un successo. Mi ero impegnato duramente, come uno giovincello – benché non lo fossi – e così fui di esempio e traino anche per i giovani veri che facevano parte di quella Classe/Compagnia.

Il tuo primo esordio, cosa ricordi di quel momento?

La spavalderia delle prove, all’aprirsi del sipario e vedendo più di duecento persone davanti a me, svanì in un lampo. La sala era ovviamente buia ma li sentivo e li vedevo tutti, uno ad uno. I primi minuti fui terrorizzato dal pensiero di non ricordare le battute, di sbagliare i movimenti, le gambe letteralmente tremavano ma mi concentrai sul perché del mio essere lì sul palco, ovvero, “ricreare un sogno negli occhi del pubblico” e tutto filò liscio fino alla fine. In entrambe le repliche (ricordiamoci che era il debutto di una Scuola di Teatro) uno dei miei colleghi fece per due volte un errore madornale proprio nel momento più delicato perché eravamo tutti in scena (14 attori) e c’era un complicato incastro di battute che rischiava di saltare. Fortunatamente in entrambe le occasioni ebbi l’intuizione di come ricondurre le cose sul giusto binario e così salvai il buon esito della commedia. Per me essere in scena è come essere in una squadra, massima concentrazione, massima armonia e aiutare sempre chi si trova in difficoltà.

Cosa significa essere attori, oggi?

Bella domanda che rischia una risposta che ad alcuni potrebbe risultare indigesta. Mi rifaccio quindi alle sempre valide parole della bravissima e compianta Lidya Biondi che mi rilasciò un autografo con questa aggiunta: “Un mestiere da pazzi”.

Quali artisti hanno influenzato maggiormente il tuo lavoro?

Di quelli che ho avuto il privilegio di ammirare dal vivo alcuni non ci sono più, altri sono di un’altra generazione, altri sono contemporanei e taluni decisamente giovani. Da ogni artista che mi affascina, che mi cattura, io cerco di “assorbire” un insegnamento, un arricchimento, di fare mio quel “quid”, anche lieve e quasi impercettibile “ai più”, che colgo nelle loro performance. Per fare dei nomi in modalità random: Roberto Herlitzka, Giorgio Albertazzi, Gianrico Tedeschi, Claudio Di Palma, Arnoldo Foà, Mariano Rigillo, Mauro Avogadro, Massimo Popolizio, Tommaso Cardarelli, Franco Branciaroli, Gabriele Lavia, Giuseppe Bisogno, Francesco Montanari. Mentre tra le donne, in assoluto, Mariangela Melato, Franca Valeri e Maria Paiato. Tanti altri attori e attrici – anche non italiani – mi hanno emozionato, anche profondamente, ma da quelli sopra menzionati ho sicuramente tratto degli insegnamenti molto importanti. 

Quali persone ed episodi hanno influenzato maggiormente il tuo percorso?

Ho avuto la fortuna di fare tanto palcoscenico e di incontrare registi di grande spessore: Salvatore Santucci, Sebastiano Sebino Salvato, Giuseppe Bisogno, Alessandro Londei, Brunella Caronti, James La Motta, Loretta Cavallaro. Ognuno di loro ha dato un “up grade” alle mie esperienze e quindi ogni spettacolo ha consolidato quanto già maturato riverberandosi poi nelle esperienze successive.

Una menzione particolare va però a …?

Salvatore Santucci, Maestro d’arte e di cultura a 360 gradi, con cui ho fatto cose eccezionali, ma con il suo “Caligola, l’Imperatore in rivolta che voleva la luna” mi ha dato un imprinting fondamentale di formazione, crescita e grandissima soddisfazione professionale. Non da meno, ma secondo solo in ordine di tempo, è stato importante l’incontro con Loretta Cavallaro che sul testo di Vittorio Rombolà “Chi è la bestia?” mi ha guidato in una delle mie performance preferite e di grande soddisfazione tanto che nel 2012 allo “Schegge d’Autore” del Teatro Tor di Nona di Roma vinsi il premio come “miglior attore non protagonista” e fu premiato anche il testo di Vittorio Rombolà. 

Cosa cerchi di trasmettere attraverso la tua arte?

Con le mie esperienze teatrali ho attraversato molti “generi”. Da Shakespeare a “Priscilla, la regina del deserto”, tanto per intenderci, non facendomi mancare il teatro napoletano con una riuscitissima edizione di “Napoli Milionaria” al Teatro delle Muse di Roma, oltre al teatro in Romanesco ed al genere “humor inglese”. In tutte queste poliedriche esperienze il senso era di dare al pubblico qualcosa di me, di mio, di interiore, attraverso le parole scritte per il personaggio che si fa “carne”, che vive in quel momento – e solo in quel momento, diverso ogni sera – per appagare il bisogno di godere attraverso l’arte quel “benessere” da ricordare il più a lungo possibile per sentirci tutti “diversi” da come eravamo prima di entrare in scena o in sala. 

Ci racconti di qualcosa di te e delle tue passioni?

Presto detto: studiare, sudare, impegnarsi, provare e riprovare, anche oltre lo sfinimento, le scene di una pièce per poi offrire al meglio sul palco la vita del personaggio attraverso “il mio vivere” quella sua storia. La mia passione? Il Teatro. Non a caso ho frequentato vari stage di Michael Margotta (Actor’s Centre), di Mauro Avogadro e Daniele Salvo dello Stabile di Torino, oltre a quelli di Luciano Curreli (Almost Blu), di Giorgio Albertazzi e poi di Joseph Ragno (uno dei protagonisti di “Le ali della libertà”). 

2022 © RIPRODUZIONE RISERVATA.

Questa intervista è stata rilasciata telefonicamente, dall’Artista Doriano Rautnik, esclusivamente ad Ilaria Solazzo. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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